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INADEMPIMENTO DI CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA -  RISOLUZIONE O RECESSO?

INADEMPIMENTO DI CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA - RISOLUZIONE O RECESSO?

Con contratto preliminare di compravendita il promissario acquirente si impegnava ad acquistare l'immobile che ne risultava oggetto e versava una caparra confirmatoria pari a un terzo del prezzo; le parti fissavano la data per la stipula del contratto definitivo entro i successivi due mesi.

Scaduto detto termine, il promittente venditore si vedeva però costretto a prorogarlo, avendo nel frattempo scoperto che era conglobato nell'ente oggetto del contratto una parte di pianerottolo, parte comune condominiale.

Egli stesso, in precedenza, aveva acquistato il bene in tali condizioni, senza tuttavia che all'epoca di un tanto se ne accorgesse né il suo dante causa, né il notaio rogante.

Sta di fatto che, ora, il problema era emerso e doveva essere risolto.

Poichè il possesso di tale porzione di parte comune era pacifica e si protraeva da oltre vent'anni, il promittente venditore si vedeva costretto ad avviare la causa nei confronti del Condominio, avente quale oggetto l'acquisto per usucapione.

Il promissario acquirente accettava di attendere la conclusione della causa che si prospettava potersi concludere in tempi brevi stante appunto la mancanza di contestazione da parte del Condominio e, pertanto, fra le parti interveniva una scrittura privata con la quale le stesse prorogavano il termine per la stipula del contratto di compravendita all'esito della pratica.

Nel frattempo, il promissario acquirente, con il consenso del promittente venditore, prendeva possesso dell'immobile per abitarvi insieme alla sua famiglia.

La causa, tuttavia, si presentava più complessa di quanto preventivato e, fra varie vicende, si protraeva per oltre sei anni, per cui le parti prorogavano ulteriormente il termine per la stipula del contratto definitivo. Già di per sé, si trattava di un tempo troppo lungo per il promissario acquirente il quale, avendo ottenuto il mutuo bancario, non solo doveva giustificare alla banca i motivi del mancato acquisto, ma stava nel frattempo pagando le rate del prestito.

Oltre a ciò, la sentenza poi ottenuta non si rivelava comunque sufficiente a risolvere la questione; infatti, il promissario acquirente incaricava un perito di fiducia al fine di verificare se l'immobile fosse idoneo alla vendita; nell'assolvere al proprio compito, il professionista rilevava diverse importanti difformità fra la mappa catastale e lo stato in natura dell'immobile; difformità che avrebbero potuto certamente venir sanate, ma con aggravio di costi e di tempi, che il promissario acquirente non era disposto ad accettare. Le difformità più rilevanti riguardavano diverse ubicazioni dei muri interni e il disegno in mappa di due finestre di fatto inesistenti.

Trovandosi l'immobile in territorio nel quale vige il sistema tavolare, va aggiunto che vi era un'ulteriore difformità fra la mappa tavolare e lo stato in natura; in sostanza, le due mappe, tavolare e catastale, non coincidevano né fra di loro, né con lo stato in natura.

Per tali motivi, il bene risultava invendibile. Non veniva effettuata un'indagine in tal senso, ma si presume che l'immobile non potesse nemmeno ottenere il certificato di abitabilità.

Informato di un tanto il promittente venditore, questi negava l'esistenza di alcuna difformità, affermando anzi che la mappa catastale era stata aggiornata immediatamente dopo l'emissione della sentenza dichiarativa dell'avvenuto acquisto per usucapione della porzione di parte comune.

Ciò, però, non corrispondeva al vero, come facilmente si desumeva dai documenti depositati al Catasto.

A quel punto, il promissario acquirente inviava al promittente venditore la comunicazione di recesso dal contratto preliminare di compravendita, per inadempimento dell'altra parte, adducendo che erano trascorsi oltre 6 anni dalla firma del suddetto contratto, che le proroghe dei termini per la stipula del definitivo via via concordate erano da imputarsi a motivi non dipendenti dalla sua volontà, che comunque l'immobile non era vendibile a causa delle difformità sostanziali riscontrate fra la mappa catastale e lo stato in natura e la mappa tavolare e lo stato in natura.

Su tali basi, ai sensi dell'art. 1385, II comma, codice civile, con la comunicazione del recesso, chiedeva il versamento del doppio della caparra.

La giurisprudenza si è pronunciata in materia di risoluzione contrattuale, specificando che il solo inadempimento non è sufficiente, ma occorre anche la “verifica circa la non scarsa importanza prevista dall'art. 1455 cod. civ., dovendo il giudice tenere conto dell'effettiva incidenza dell'inadempimento sul rapporto contrattuale e verificare se, in considerazione della mancata o ritardata esecuzione della prestazione, sia da escludere per la controparte l'utilità del contratto alla stregua dell'economia complessiva del medesimo” (Cass. Civ. 13.01.2012 n. 409).

In sostanza, per poter legittimamente esercitare il recesso, l'inadempimento deve essere di non scarsa importanza, con ciò dando origine a un'indagine da compiersi al fine di vagliare il corretto utilizzo del diritto di recesso, da effettuare in base ai criteri adottati nel caso di risoluzione per inadempimento di cui agli articoli 1453 e 1455 cod. civ.

Il quesito che in alcuni casi è stato posto è se nel caso in cui parte adempiente (ovvero parte non inadempiente) sia il promissario acquirente, come nel caso in esame, egli abbia la possibilità di recedere ed esigere il doppio della caparra versata, oppure di chiedere la risoluzione del contratto e il risacimento del danno.

E' una scelta che il soggetto deve operare in autonomia. Si tratta infatti di due rimedi diversi, fra loro alternativi e non cumulabili.

Sulla non cumulabiltà della caparra e del risacimento del danno si è espressa Cass. Civ. 03.11.2017 n. 26206: la parte adempiente che ha versato la caparra “ha diritto di ricevere la restituzione del doppio di essa, con esclusione del diritto al risarcimento del danno cagionato dall'inadempimento che ha giustificato il recesso”.

Dovrà dunque la parte adempiente ben attentamente valutare l'opportunità di agire nell'uno o nell'altro modo, in particolare accertare se sussistano i presupposti per ottenere un risarcimento più conveniente rispetto al doppio della caparra e, sopratutto, se la controparte inadempiente sia un soggetto solvibile.

Per concludere, si può dire che il caso preso in esame si è risolto pacificamente fra le parti, con un accordo conciliativo di buon senso ed evitando il contenzioso.

Avv. Manuela Marinelli

Presidente UPPI Trieste